E' da un po' che ho smesso di aggiornarvi sulla situazione a scuola. Sono diventata molto più intenzionale nel lasciare i problemi di lavoro al lavoro. Quando esco, torno alla mia vita. Mi concentro sulle cose semplici, disegno molto, sto all'aperto. Ho tagliato tutto quello che non mi è di conforto, anche la scrittura.
Tutti quelli che mi conoscono, i pochi con cui ancora parlo regolarmente, per farmi coraggio mi dicono sempre "dai che ci sei quasi, il grosso è fatto". Io annuisco, ma la verità è che ogni mattina mi sento affranta all'idea di dover tornare là dentro senza sapere cosa succederà, ma con la certezza che qualcosa succederà. Vedendo la situazione dall'esterno, non si capisce quanto male vadano le cose.
Non si capisce perché non lo spiego.
E non lo spiego perché sono questioni di una gravità che la maggior parte delle persone che ho intorno non può -e di solito non vuole credo- conoscere.
In autunno, raccontai a un'amica che avevo scoperto che a scuola c'erano dei bambini appena arrivati qui in Texas clandestinamente che non avevano nulla, nulla. Stava per arrivare il freddo, servivano urgentemente dei vestiti. Quest'amica in un secondo ordinò vari cappotti e altre cose per loro dimostrando una grandissima generosità che non mi stupì minimamente, conoscendola.
Era l'inizio dell'anno. Successivamente realizzai che accogliamo nuovi studenti in quelle condizioni tutti i santi giorni.
Da allora, le poche volte in cui ho visto e sentito quell'amica non mi ha mai chiesto nulla di quei bambini o del lavoro. Sono episodi come questo che mi fanno sentire sola, in un mondo a parte.
Non è solo lei. Come ho sempre detto, a scuola non mancano le risorse economiche, mancano le persone. Si staccano assegni, si fanno selfie da postare sui social e poi via di corsa.
Ho visto anche tanti insegnanti andare via quest'anno e non è normale che gli insegnanti se ne vadano nel bel mezzo dell'attività didattica. Ero abituata alle feste di addio. Buona pensione, buon trasferimento, cose così. Qui niente. Perfino il vincitore del prestigioso premio 'maestro dell'anno' è scomparso dall'oggi all'indomani nel silenzio generale.
Per dare un'idea dell'abisso in cui siamo sprofondati, qualche settimana fa è successa la stessa cosa nientemeno che con la preside. Un giorno c'era, il giorno dopo non c'era più. Ad oggi, non è chiaro cosa sia successo, sappiamo che non è morta, ma non l'abbiamo mai più vista né sentita.
Mancano meno di due settimane, ma questo lavoro continua a essere uno stillicidio.
Ogni giorno è un dramma nuovo, anche per la natura della materia che insegno. Nella classe di arte, specialmente ora che mi conoscono meglio, i bambini esplorano le proprie emozioni. Ci sono dei disegni che sono vere e proprie richieste di attenzione e di aiuto, ma di fatto mi sono resa conto di non avere più strumenti a disposizione per aiutarli, altri adulti a cui indirizzarli. Ci sono io in quel momento, posso solo essere presente e ascoltarli, rassicurarli che hanno tutto il diritto a sentire quello che sentono.
Quelle dei più grandi sono classi numerose, incontenibili per tanti motivi. Mi fanno sentire- non so come altro spiegarlo- sotto assedio. Un giorno entra una di queste classi e due ragazzi cominciano subito a spingersi petto contro petto in una sorta di rito tribale. Riesco a evitare la rissa convincendo uno dei due a sedersi dall'altra parte della classe. "La accontento, ma guardi che quello lì non mi fa nessuna paura" puntualizza senza spostare lo sguardo dal rivale. L'altro invece è già oltre, ha già trovato un nuovo pretesto per farsi sbattere fuori. Mentre esce mi ringhia addosso una quantità non di insulti, ma di cattiverie che culminano nel classico e poco originale, "ti odio". Non me lo ha mai detto nessuno 'ti odio'. Ho sempre immaginato che me lo avrebbe detto mio figlio in una crisi adolescenziale. Lì per lì ci rido su, è piuttosto ridicolo, che parolone. Ogni volta che lo rincontro nei corridoi però mi fissa sempre con quello sguardo che devo ammetterlo, mi mette soggezione, è carico di qualcosa di molto simile all'odio. Finisce che due notti dopo sogno che entra in classe e mi accoltella. Non chiudo più occhio. Arrivata a scuola ancora scossa dall'incubo, vengo a sapere che avevano già deciso, per ben altri motivi, che quello studente non sarebbe più tornato in classe. Ma la mia giornata oramai era rovinata sia per la mancanza di sonno sia perché detesto l'idea di un ragazzino che non sia in grado di stare fra i compagni, la prendo come una sconfitta del sistema educativo tutto.
La stragrande maggioranza dei miei studenti sono divertenti, teneri e assolutamente brillanti. La verità è che la quantità di violenza che li circonda si porta via tutto il resto. Vivo le mie giornate in allarme, mi concentro soprattutto sui potenziali pericoli. La sicurezza di tutti è la mia priorità.
La ciliegina sulla torta è una cosa che forse non dovrebbe, ma brucia più di tutto: il non sentirmi apprezzata. Fortunatamente per me, andrò a insegnare in un'altra scuola il prossimo anno, ma essere venuta a sapere che il mio lavoro è stato offerto a una persona che non ha mai insegnato la mia materia, mi offende. Non stanno nemmeno cercando una persona qualificata. Il motivo per cui ho accettato questo lavoro era portare la stessa qualità di insegnamento delle scuole più prestigiose anche qui. Ora che ci sono dentro però capisco che è un'impresa insostenibile senza l'appoggio dell'amministrazione. L'unica cosa che viene apprezzata alla fin fine è la disciplina. Tanti bei discorsi sulla giustizia sociale all'inizio dell'anno, ma poi di fatto l'unica richiesta è riuscire a farli stare seduti e zitti. Io che non ho mai cercato di fare stare i miei studenti zitti e seduti, nemmeno in questa scuola, mi sento isolata. E' una divergenza filosofica irrisolvibile. Credo che sia fondamentale avere un'influenza positiva sulle loro scelte, non tenerli sotto controllo con le minacce. Ho bisogno che imparino come stare al mondo da soli perché fuori dalla classe, tutti, loro e noi in realtà, siamo soli e abbiamo davanti mille bivi.Nessuno ti viene a dire che strada prendere nella vita. Il mio metodo richiede tempo, non è immediato, ma funziona e può, nei casi che ho visto quest'anno soprattutto, salvare delle vite.
Poco importa oramai. Me ne andrò anch'io. Sono orgogliosa di essere arrivata fino a qui e so di non avere scelta vista la situazione, ma ripensando a quest'esperienza mi addolorerà sempre l'idea di non essere riuscita a fare di più.
2 commenti:
Io dico solo che capisco il lasciare "il lavoro al lavoro" per cercare di compartimentalizzare queste sensazioni e fare in modo che l'amarezza non contagi il resto della tua vita. Però scrivere come hai fatto in questo post è terapeutico, e sono convinto sapere che là fuori nell'interweb c'è qualcuno che ti legge, seppur nell'asetticità della rete, può farti solo bene. Dare forma ai propri pensieri è un modo per digerirli ed affrontarli meglio. Perché altrimenti rimangono a brancolare nell'ombra mentre cerchi di tenerli a bada durante il resto del giorno. Direi che dovresti farlo più spesso :)
Camu: hai ragione, in questo caso mi ha fatto bene. Sto seguendo l'istinto, tendenzialmente cerco di fare solo cose che mi danno sensazioni positive in questo momento. Mi sto "maneggiando" con molta cura :)
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