sabato 28 gennaio 2023

only love can break your heart

 A un evento ho incontrato una vicina di casa con cui non avevo mai parlato. Facciamo quattro chiacchiere e si scusa -pensa te- perchè davanti al suo garage c'è sempre una macchina parcheggiata. Non ci avevo mai, ma proprio mai e poi mai, fatto caso. Dice: "E' imbarazzante, ma d'altra parte... ti danno una promozione, ti offrono una macchina, ti pagano tutto, cosa fai? Rifiuti?". Direi proprio di no. Le chiedo che lavoro fa. Lavora nelle risorse umane, la sua specializzazione è licenziare. Mi racconta che i suoi figli, che hanno la stessa età dei miei, l'hanno soprannominata 'the axe', la falce. 

E niente, lei parlava e io pensavo che una che di lavoro dà brutte notizie è ben più pimpante della sottoscritta. 
Sono così stanca che una mattina ho dimenticato di mettermi le lenti a contatto. Come si fa a dimenticare le lenti a contatto? Sono miope, per la miseria. 
Queste ultime settimane a scuola sono state intense, piene fino all'orlo di gioia e dolore. 
Il dolore fa più rumore. Ha un'eco che sembra non finire mai, ma mi costringo sempre a ricordare che ci sono state anche una quantità notevole di progressi e soddisfazioni. Ogni giorno, anche in quelli più drammatici, è successo qualcosa che mi ha riempito almeno per un secondo, non molto di più, di una felicità immensa.
Mi viene in mente il bambino che aspettava di entrare nella classe di arte con un biscotto mezzo sciolto nella manina per me. L'altro che mi ha lasciato il suo dinosauro. Sarà più contento qui, ha detto, e lo ha piazzato sotto al filodendro che ho portato ad agosto che era un ramoscello e oramai è assurto agli onori di Jurassic Park scolastico. Tutte le letterine, i disegni, i "ti voglio bene", i "mi sei mancata", i "quando vengo qui è il mio giorno preferito". Un'intera parete di messaggi di affetto. Li appendo quasi tutti, ho finito lo spazio, mi danno coraggio e mi rassicurano quanto le foto della mia famiglia che tengo sempre a portata di mano.
Guardavo i piccolini dipingere, lavare diligentemente i loro bicchierini, preparare i materiali per i compagni della classe successiva e sorridevo.
Siete stati proprio bravi, datevi una bella pacca sulla spalla. Anzi, diamocela tutti quanti, dai. 
Ho imparato a diversificare le mie lezioni. C'è chi dipinge e lava anche i pennelli e c'è chi deve ancora imparare cose tipo chiedere e non strappare di mano, non picchiare, ascoltare. Una grande parte della mia giornata consiste nel facilitare conversazioni ovvie. 
Tu vuoi questo e anche tu vuoi questo, come si fa? Lo dividiamo in due? Lavoriamo insieme? Ci inventiamo un gioco nuovo? Uno dei due rinuncia? 
Dopo tutti questi mesi, mi sento di dire che il problema vero è la violenza. Ne ho vista molta all'inizio dell'anno, poi le cose si erano calmate. Subito prima delle vacanze di Natale c'è stata una ripresa che non si è ancora placata. Va a ondate. Recentemente si sono verificati episodi che sto ancora cercando di elaborare.
Vengo da una famiglia non perfetta, ma piena di amore. Non ho mai visto così tanta brutalità nella vita come da quando lavoro in questa scuola. Violenza verbale, fisica, razzismo, bullismo, omofobia, maleducazione, discriminazioni di ogni tipo. È una violenza che non è mai -mai- rivolta verso di me e questo è fondamentale, ma che vedo, sento, mi spaventa, mi traumatizza. 
Gli studenti più grandi, in particolare, mettono a dura prova la mia speranza. Ogni volta che vengono in classe, non so come altro dirlo: ho paura. 
Dalla settimana scorsa per loro c'è un metal detector, controlli e zaini trasparenti. Non hanno più nemmeno il permesso di allacciarsi le felpe. 
Un pomeriggio sembrava tutto sotto controllo. A un certo punto vola un aereo di carta coperto di svastiche. Fermo tutto. Non si capisce bene chi sia stato, ma non importa. Parliamo, ragioniamo. Che simbolo è, cosa rappresenta. In fondo sono in prima media, magari non sanno, non capiscono. Successivamente lo racconto alla loro maestra e mi risponde con assoluta normalità: "Certo, oggi abbiamo parlato dell'Olocausto". Non sapevo se ridere o piangere. Gli spieghi l'Olocausto e loro parteggiano per Hitler? Allucinante.
Come facciamo noi insegnanti a insegnare *tutto*? Dall'igiene personale alla matematica. Questa è la domanda che mi assilla ogni giorno.
Sono in uno stato di perenne tensione. Da un momento all'altro può succedere -e purtroppo qualche volta è successo- di tutto. Sono così tesa che anche a casa basta un niente, un ritardo, una chiamata senza risposta, per farmi entrare nel panico. 
Non so più cosa fare per evitare i conflitti in classe. Ho cominciato perfino a sperimentare con qualche tecnica di teatro improv. Ho pensato che magari se riescono a ridere insieme, non gli viene troppo da picchiarsi. 
Con i più piccoli, diciamo fino alla quarta elementare, più volte mi sono messa fisicamente in mezzo a due litiganti. Nei momenti più drammatici, il mio unico istinto è proteggerli, tutti, quelli che le danno e quelli che le prendono. Voglio solo prevenire. Nel momento in cui qualcuno si fa male, il danno è irreparabile per tutti.
Mi metto in mezzo quando sento fiducia nella relazione con la persona infuriata: so che non farebbero mai del male a me. E infatti, si calmano. Tante volte scoppiano a piangere perché poi quei comportamenti violenti sono chiaramente un sintomo del loro dolore. Bisogna solo capire come accidenti farlo uscire senza fare danni quel maledetto dolore che si portano dentro. 
Tanti dei bambini che mi dicono essere più violenti altrove vedono la classe di arte come la loro oasi felice, al punto che quando hanno dei momenti difficili, i loro maestri a volte li mandano da me. 
Cerco di non parlare più di tanto con loro, non sono una psicologa. Il bambino che all'inizio dell'anno, lasciato libero di scegliere, aveva dipinto per un'ora sangue, solo sangue, una mattina mi ha preso da parte e mi ha detto solo: "I feel like I don't matter". Sono rimasta senza parole mentre lo guardavo andare via. Ho avvertito la sua insegnante, è importante mettere insieme i pezzi, credo. Il giorno dopo per la prima volta quando mi ha vista mi ha abbracciata e mi ha detto che sono la sua migliore amica. Non sono la tua migliore amica, sono la tua maestra. 
Ho sempre paura di dire la cosa sbagliata. Comunichiamo attraverso i colori, le linee, il gioco. 
Dipingendo, disegnando, costruendo, non si può mai sbagliare. 
Ricordo un pomeriggio.  Si è presentato alla porta uno studente in difficoltà, occhi lucidi, sguardo pieno di rabbia. Non ho idea di cosa fosse successo. L'ho invitato a sedersi insieme alla classe che era lì in quel momento. Senza dare spiegazioni, si è calmato.
La sua maestra alla fine della giornata mi ha ringraziata e mi ha abbracciata. Mi ha chiesto il permesso (qui il consenso non viene mai dato per scontato) e mi ha dato un abbraccio vero, non alla texana. Per me quello è stato uno dei momenti più significativi di questo anno scolastico. Sentire di portare il peso insieme, cercare di non farsi schiacciare anche se la fatica è tanta.
Con i grandi, per tanti, tanti, motivi, tutto questo non funziona.
Non sono capace. 
Canta Neil Young:
Only love can break your heart. 
What if your world should fall apart?
Il mio mondo, la mia visione del mondo, quello che credevo fosse il mondo prima di iniziare quest'esperienza, sta cadendo a pezzi, è vero. Non sarò più quella di prima dopo quello che ho visto. 
Conto i giorni che mi separano dalla fine dell'anno scolastico. Vorrei scappare via, ma non posso. Non posso avere questo peso sulla coscienza. Ho visto troppi bambini piangere. Quando un insegnante se ne va nel mezzo dell'anno, nella mia scuola non ne arriva un altro. Se ne stanno andando in tanti ultimamente e ogni volta è una valanga di conseguenze negative per tutti.
Non avevo mai sentito tutta questa sofferenza e tutto questo amore intorno a me. 
Pura vita.


P.S. Ieri dopo aver postato, ho spento tutto.
La situazione che vi ho raccontato richiede tantissima energia. Anche condividere richiede tantissima energia.
La cosa fondamentale è mettere il proprio equilibrio al primo posto. È stato bello stamattina svegliarmi e trovare tutti i vostri messaggi. Tutti i messaggi che ho ricevuto erano di solidarietà, stima e affetto come sempre e questo è un grande conforto.
Ogni volta che racconto della nuova scuola, però viene sempre fuori  una certa opinione. 
Ogni volta mi riprometto di trovare il tempo di spiegare bene la questione, ma poi il tempo passa.
Chiarisco un attimo adesso, ci provo.
Chiedetemi pure se avete dei dubbi.
L'opinione sostanzialmente è "incredibile o vergognoso che in uno dei paesi più ricchi del mondo succedano queste cose".
Ecco, sì però anche no. 
Cioè, è complicato.
Come ho già spiegato in passato, la mia scuola è come sotto una lente di ingrandimento da parte di tutte le autorità. La mobilitazione per migliorare la situazione è reale. Innanzitutto, la scuola in sé come edificio è nuova e all'avanguardia. Abbiamo tutto e noi insegnanti siamo ben pagati. Durante l'ultima riunione, ad esempio, è stato comunicato che chi vuole lavorare dopo scuola oppure il sabato per fare ripetizioni agli studenti che ne hanno bisogno verrà pagato una certa cifra all'ora. C'è stato un gasp generale, la cifra era alta. Poi però quelli che hanno alzato la mano per dichiararsi interessati alla proposta sono stati pochissimi. La mia sensazione è che non sia una questione di soldi o risorse: il problema è che nessuno vuole fare questo lavoro. Avere a chè fare con un contesto di povertà estrema (si parla di persone traumatizzate e che spesso e volentieri non hanno beni primari come cibo e vestiti) è difficilissimo.
Perché queste persone sono in una situazione di povertà estrema? Ci sono mille circostanze diverse ovviamente, ma nel caso della nostra scuola, tantissimi studenti sono appena arrivati dai vari paesi del Centro -Sud America. Letteralmente ogni giorno conosco uno o due studenti nuovi che sono appena arrivati da Honduras, Guatemala, Messico, ecc. che non parlano inglese e non hanno niente tranne uno sguardo pieno di domande e paura che non ti fa dormire la notte. Avete presente i telegiornali? Quelle persone che attraversano il deserto, la giungla, guadano i fiumi per arrivare negli Stati Uniti? I media non raccontano mai cosa succede dopo. Il dopo lo si vede in scuole come la mia. Ognuno con una cultura e un trauma diverso e noi facciamo il possibile per aiutarli. 
Per questo non riesco a condividere l'indignazione. Questo paese come tutti gli altri ha mille difetti, ma data la situazione, mette risorse e persone a disposizione dei nuovi arrivati. 

Tanti mi hanno scritto in questi mesi per raccontarmi di situazioni simili in altri paesi, anche in Italia. 

Questa scuola per me è stata come una doccia fredda. Un risveglio improvviso su una realtà di degrado che io non conoscevo, ma che c'è sempre stata qui e io suppongo, in ogni grande città del mondo. Cosa credete? Anche i miei conoscenti americani rimangono basiti dai racconti sulla mia scuola. È che stiamo tutti nel nostro.
Uno dei motivi per cui sto condividendo questa esperienza difficilissima per me è che spero che chi mi legge, possa allargare anche solo di qualche millimetro il proprio orizzonte come ho fatto io. Facendolo si scopre che la povertà, il degrado e il trauma sono lì a portata di mano, ma a volte scegliamo di non vederli perché ci fanno sentire a disagio, impotenti. 
Solo quando finalmente vediamo, prendiamo coscienza, possiamo -nei tempi e modi che riteniamo opportuni- scegliere di agire.

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