La giornata è finita, in classe finalmente regna il silenzio. Raccolgo le mie cose, faccio per uscire ed è questione di un attimo. Il mio sguardo fa una virata panoramica per assicurarsi un'ultima volta che sia tutto in ordine e intercetta, in bella vista su un mobile, l'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci. Bob Ross quanti ne vuoi, ma non se ne vedono tanti di Leonardo qua intorno, ci si fa caso. Il fatto è che questo qui ha le mutande, ha proprio le mutande. L'insegnante di arte che avevo sostituito quel giorno aveva dipinto con una tempera celeste molto spessa, delle mutandone fantozziane sull'uomo vitruviano. Ma si può? Per una come me che non usa nemmeno l'evidenziatore, è un gesto incomprensibile ad ogni livello.
Come tutti quelli a cui l'ho raccontato, starete ridendo. Beh, per me invece è stata una mezza tragedia. Avete presente quei momenti, quelli all'apparenza banali in cui un dolore cronico, sordo, un dolore che hai voluto con forza spingere giù, torna su all'improvviso? E' stato uno di quei momenti lì. Davanti all'uomo vitruviano con i mutandoni mi è esploso un magone difficile da tenere a bada.
Chi fa una cosa del genere? Chi espone un bellissimo catalogo -ci avrà speso anche dei soldi- per poi sfregiarlo in quel modo? Un bambino che vede una mostruosità simile tutti i giorni in classe che idea si fa? Se deve essere così, vi prego, ridatemi Bob Ross.
Quello che ha scatenato il mio magone e poi calde lacrime una volta a casa, è l'idea che questə insegnante abbia ottenuto il lavoro che volevo io. Gente così mi passa davanti da un anno.
Dare le dimissioni durante la pandemia è stata una delle rinunce più grandi della mia vita. Ci siamo trasferiti in questa zona soprattutto per le scuole. Immaginavo che i bambini avrebbero frequentato delle buone scuole pubbliche e io avrei trovato lavoro qui vicino. Non è che volessi diventare provveditore, avevo un'ambizione semplice e del tutto in linea con le mie competenze. Gli insegnanti di arte non sono richiestissimi, ce ne sono solo uno o due in ogni scuola, ma ci sono così tante scuole. Qualcosa prima o poi salterà fuori, pensavo.
Il mio primo colloquio risale a un anno fa. Tornai a casa vittoriosa, sicura che mi avrebbero fatto un'offerta di lavoro. In una situazione praticamente identica, nell'ultima scuola in cui avevo lavorato, dopo due ore, di venerdi pomeriggio, all'ultimo minuto, ricevetti il mio bel contratto da firmare ché avevano paura che cambiassi idea. E invece in questo caso non andò così. Dopo un paio di settimane scrissi alla preside che si era detta così colpita dal mio portfolio ed era stata amichevole, quasi confidenziale durante il colloquio. Non mi rispose. Non seppi più nulla, evidentemente non ero stata scelta, ma perchè non poteva dirmelo? Passai quel colloquio al setaccio mille volte nella mia mente per capire cosa avessi potuto aver sbagliato. Percepivo in quel silenzio dell'ostilità. Avevo offeso qualcuno? Sembravano tutti così piacevolmente colpiti quel giorno. Cos'era successo?
Dopo qualche tempo capitò la stessa cosa. Tutto identico. Bel colloquio-complimenti-silenzio. Un'amica insegnante per consolarmi mi disse che di sicuro ero troppo qualificata per quel posto. Più qualifiche hai, più gli tocca pagarti: avranno problemi di budget. Io la ignorai e presi in seria considerazione l'ipotesi contraria invece. In un certo senso, è più facile incolpare se stessi. Spingi, ti prepari meglio, migliori il portfolio, fai dei corsi e poi andrà bene. Invece no, non è mai andata bene. Ogni mattina accompagnavo i miei bambini a scuola e osservavo le varie maestre: che cos'avranno queste qui più di me?
Un giorno notai una cosa che non mi era mai saltata all'occhio: erano tutte simili. Erano quasi tutte bionde, texane, probabilmente cristiane, un certo taglio di capelli, un certo abbigliamento. Non mi somigliavano. Mi sentivo un'intrusa anche solo a immaginarmi lì. Le maestre che non rispondevano a quella descrizione al limite facevano sostegno che è il tipo di lavoro più richiesto, immagino il più ingrato visto che nessuno vuole farlo.
La mia amica insegnante allora fece un'altra ipotesi: magari è il tuo nome. Magari vedono il nome e pensano che non parli bene inglese. Interessante, ma non si chiama discriminazione questa cosa? Ci fu chi mi suggerì di cambiare cognome, cominciare a frequentare la chiesa o di farmi bionda: in parole povere, se volevo quel lavoro dovevo cambiare nientemeno che la mia identità. La segretaria di una scuola che aveva visto il mio portfolio, ma che non conoscevo personalmente mi fece iscrivere fra le liste dei supplenti. "Una come te non può non lavorare! Di sicuro il problema è che non ti conoscono". Benissimo: mi metto a fare la supplente così mi conoscono, vedono come lavoro e al colloquio spicco rispetto agli altri candidati.
Quando ho cominciato a fare supplenze ho smesso di mettere in discussione la mia preparazione. Ogni settimana visitavo un paio di scuole. Mi ero fatta l'idea che ci lavorassero dei geni in quelle scuole, ma non era necessariamente così, come si evince dal caso dei mutandoni leonardeschi.
Una volta, dopo aver sostituito un'insegnante per una settimana, questa mi mandò un regalo per ringraziarmi. Questo gesto mi colpì moltissimo. Mi stupì e mi commosse enormemente. Non ci conoscevamo e avevo solo fatto il mio lavoro. Mi scrisse che tutta la scuola parlava di me e aggiunse che si sarebbe trasferita in un altro stato alla fine dell'anno quindi avrei potuto eventualmente prendere il suo posto. Scrissi subito ai dirigenti scolastici. Non mi risposero. Rimasero in silenzio anche quando finalmente l'offerta di lavoro divenne pubblica. Con tutte le mie qualifiche e raccomandazioni anche di vari insegnanti della loro stessa scuola, non mi considerarono degna nemmeno di un colloquio.
Una delusione dopo l'altra sono arrivata alla fine dell'anno scolastico. C'è stata solo una preside che ha avuto la bontà di spiegarmi perchè non ero stata scelta. Mi ha scritto che la commissione aveva discusso a lungo e alla fine avevano finito per scegliere un altro candidato. Però avevano tutti apprezzato molto la mia "diversità".
Quale diversità? Sono americana quanto lei. Si riferiva al mio accento? Alla mia carnagione? Bisogna fare attenzione perché la parola "diversità" in bocca a una persona di potere bianca può essere molto ambigua. Infatti, con il suo potere ha preferito assumere qualcun altro.
Quando ho chiesto che mi indicasse nello specifico quali fossero le qualifiche dell'altro candidato che a me mancavano (una lingua in più, un titolo di studio in più, più anni di esperienza...?) la risposta è suonata abbastanza grottesca. Hai mai pensato di insegnare alle superiori? Forse sei un po' sprecata da queste parti. E poi un consiglio piuttosto sinistro: la prossima volta che devi fare un colloquio, cerca di capire qual è la clientela della scuola, chi fa la decisione ultima di assumerti e fai contatti.
E io che pensavo che per ottenere un lavoro fosse sufficiente mandare un curriculum. Mai mi sognerei di chiamare i miei studenti e le loro famiglie "clientela".
Visto che un lavoro mi serviva e la finestra per le assunzioni per il nuovo anno scolastico si stava chiudendo, senza convinzione, ho risposto a un paio di offerte altrove. In entrambi i casi, ho ottenuto il lavoro. Il primo l'ho rifiutato per una serie di motivi miei, il secondo l'ho accettato. Andrò a lavorare in città, dove la mentalità evidentemente è più aperta.
Alla fine del colloquio online, mi hanno detto che se accettavo, cancellavano tutti gli altri colloqui. Mi sembrava troppo bello per essere vero, però effettivamente questo è il tipo di feedback a cui ero sempre stata abituata prima di approdare in questo posto. Il giorno successivo sono andata a vedere la scuola. E' nuovissima, con una classe di arte meravigliosa che ha una finestra gigante e anche la fornace per la ceramica. Avevo mandato quel curriculum quasi a caso, nello sconforto, e quella proposta mi aveva colta alla sprovvista anche perché dentro di me, in realtà non avevo mai nemmeno considerato di fallire nel mio piano e dovermi spostare. Quello che mi ha convinto ad accettare è stata l'unica domanda che mi aveva fatto la preside durante il colloquio online. In queste circostanze si viene intervistati da una commissione. Ognuno mi aveva fatto delle domande, ma lei voleva sapere solo una cosa da me: la mia visione del concetto di equità. Mi ha steso. Non ho mai sentito nemmeno pronunciare la parola "equità" in un anno passato a girare le scuole dei suburbi. Eppure di scuole disagiate ne ho visitate tante.
Una volta parlai con un professore bianco che quasi si vantava di non avere mai imparato nemmeno una parola di spagnolo dopo dodici anni passati in una scuola a stragrande maggioranza messicana in un quartiere povero. In quella scuola avevo incontrato studenti anche di undici anni che non parlavano una parola di inglese. Difficile immaginare che i genitori parlassero inglese e i figli no. Come faceva quel professore a tenere i contatti con le famiglie? E poi avete idea di cosa significhi passare anche solo una giornata in un posto in cui ti chiedono di fare una serie di cose senza capirci niente, zero? Io sì, quel professore no.
Anche la scuola in cui lavorerò ha una popolazione afflitta da vari problemi sociali. Non so come andrà, sono consapevole che sarà difficile, ma sulla base di quello che ho potuto vedere finora, ho la sensazione che almeno sarò circondata da un'amministrazione che vede il mestiere di insegnante come lo vedo io.
Il fatto di non essere stata assunta nella comunità in cui vivo, continua a non andarmi giù. Che sia stato razzismo, nepotismo o un miscuglio di chissà che fenomeni sociali, la verità è che per la prima volta nella vita, mi sono sentita discriminata.
Fino a questo momento, vivendo qui, avevo sempre sentito il sapore dolce e vagamente stucchevole della discriminazione positiva, ora so per esperienza diretta che il contrario -non so come altro dirlo- ti annienta. In inglese c'é un'espressione perfetta, soul-crushing. Non dico di non essermi imbattuta in esperienze e persone positive quest'anno, anzi, ma passare tutto questo tempo in un'ambiente così tossico per me, per i miei valori, mi ha schiacciato l'anima. Sono arrivata a fare incubi tutte le notti e ad avere la nausea al solo pensiero di dover tornare a scuola il giorno dopo.
Pensavo di essere più forte. Pensavo che sarei arrivata lì, avrei ottenuto il lavoro e avrei fatto la mia parte per migliorare la comunità in cui vivo dall'interno. Non ci sono riuscita. Nessuno ce la può fare da solo contro un sistema. Questi sono sistemi, enormi, radicati e accettati da tutti come inevitabili da generazioni. Ero partita con così tanto entusiasmo e fiducia che è stato difficile perfino ammettere quello che stava succedendo e confidarmi con chi mi era più vicino.
Mi sento sollevata che la mia esperienza personale si sia conclusa, ma il mio pensiero va a chi ha passato le stesse cose e poi non ha mai trovato un lavoro altrove. Penso continuamente agli studenti che purtroppo pagano lo scotto maggiore in questo tipo di meccanismi.
Proprio l'ultimo giorno di scuola, la ciliegina sulla torta. Entra nella classe di arte in cui stavo facendo supplenza un gruppo di studenti. La loro insegnante, una cinquantenne bianca bless your hearth, subito dopo loro, strilla trafelata: "Questi due studenti sono *fuori controllo*! Non esiti a chiamare aiuto se le rendono la vita impossibile.
*Sono fuori controllo!*
Che espressione forte, mi vengono in mente dei cavalli imbizzarriti. Avevo capito perfettamente, ma a scanso di equivoci ho chiesto che mi indicasse quali studenti erano imbizzarriti: guarda caso erano gli unici due studenti neri presenti. In realtà, con me hanno lavorato e abbiamo anche parlato un attimo del loro comportamento. Non mi sono sembrati per niente *fuori controllo*, confusi e incompresi sì.
Una parte di me vorrebbe dimenticare tutto, ma sento la responsabilità di denunciare.
Chimamanda Ngozi Adichie in Americanah, lo dice chiaro e tondo: se (siete neri e) pensate che a parità di qualifiche persone con la pelle scura non avrebbero ottenuto gli stessi lavori, non dite niente (perchè non otterreste niente), fate parlare i vostri amici bianchi.
Ora. Con il mio accento e la mia carnagione, mi sono resa conto di non essere percepita come bianca qui nella zona in cui vivo (almeno sul posto di lavoro) ma tecnicamente lo sono, sono privilegiata in mille modi. Non posso andare avanti con la mia vita senza almeno provare a intavolare una riflessione.
Per prima cosa devo rimettermi in senso perchè quando ti schiacciano l'anima non è proprio come in quei cartoni animati in cui a Wile E. Coyote cade un masso in testa, si fa sottiletta e poi si rialza come se niente fosse. Quando avrò recuperato le forze, vedrò il da farsi.
Non ho fiducia di poter trovare ascolto nella controparte. Per questo vorrei chiedere una comparazione fra le mie competenze e quelle di chi è stato scelto volta per volta al mio posto. Mi pare l'unico modo per dimostrare se c'è stata effettivamente una discriminazione nei miei confronti oppure no.
Mi rendo conto che tante delle cose che ho subito non siano poi dimostrabili: ma cosa racconta di quel sistema il solo fatto che qualcuno faccia una richiesta come la mia?
Un paio di chiarimenti indispensabili per chi ha avuto la pazienza di arrivare fino a qui.
Anticipo quello che di sicuro a qualcuno sarà venuto in mente leggendo questo post.
- "Allora anche in America non c'è la meritocrazia". Dato per assodato che la cosiddetta meritocrazia non esiste da nessuna parte (potremmo parlarne a lungo, ma non usciamo fuori tema), no. Credo che il problema sia circoscritto ad alcuni ambienti. Ho sempre ottenuto lavori semplicemente presentandomi ai colloqui e così tutti quelli che conosco.
- "Allora gli italiani non sono visti come bianchi?" Assolutamente no. In questo caso, io italiana dalla carnagione olivastra con un accento latineggiante nel cuore della Bible Belt texana, in uno specifico ambiente lavorativo, non credo di essere stata percepita come bianca. In 15 anni, non mi era mai successo.
A tanti piace pensare il mondo in bianco e nero, ma non sono qui per semplificarvi la vita. Adoro il Texas, lo dico anche alla luce di tutto quello vi ho appena raccontato. Il mondo è complesso. La vita vera non è storytelling, non c'è una vicenda con uno snodo e poi una soluzione con una morale unica. Continuo a pensare che quello che è positivo e giusto sia in netta maggioranza rispetto a quello che è negativo e ingiusto in Texas e ovunque.
L'esperienza che ho vissuto mi ha cambiato profondamente. Esco da quest'anno scolastico migliore come persona e come insegnante, ma a caro prezzo. Del resto forse è vero che la crescita morale e l'empatia tendono a passare dal dolore. Non ci sono scorciatoie.