Vi segnalo una discussione interessantissima che va avanti da ieri sul termine "expat" nelle storie su Instagram (qui, le storie scadute sono in evidenza nel cerchietto 'expat sì o no').
Lo usate ancora questo termine?
Da un piccolissimo sondaggio è risultato che la maggior parte di chi legge questo blog, non lo usa.
Nemmeno io uso più il termine 'expat'.
Mi sono trasferita all'estero nel 2006 e forse allora il significato di questa parola che continua ad evolversi, era meno 'carico' rispetto a oggi. L'ho usata per tanto tempo in buona fede senza pormi nessuna domanda.
Quando mi sono fermata a rifletterci, però ho smesso.
Chi può definirsi expat e chi no?
Perché un africano o un filippino nella mia stessa identica situazione non vengono visti come expat e io invece sì?
È un termine che ora trovo ambiguo e potenzialmente discriminatorio. Ne faccio a meno volentieri.
Tra l'altro, non è solo una questione di vocabolario, ma anche di sostanza.
I primi anni qui frequentavo quasi esclusivamente persone che si definivano 'expat' di vari paesi, pochi italiani. Poi pian piano molti sono partiti e ho preferito cercare le mie amicizie altrove. Purtroppo, nella mia esperienza almeno, quelli degli expat sono ambienti piuttosto tossici, inutilmente competitivi e superficiali. Si passa molto tempo a lamentarsi fra privilegiati e parlare di quanto sia migliore casa propria. Ecco, a me quel tipo di discorsi non interessano.
Ho la fortuna di aver conosciuto questo paese complicatissimo attraverso lo sguardo di un americano -uno colto, di quelli che hanno viaggiato e parlano diverse lingue- e attraverso lui che paradossalmente è super critico verso la cultura americana e texana in particolar modo, ho imparato ad apprezzare e capire quello che mi circonda. Se capisci i motivi dietro alle contraddizioni, ti appassioni altrimenti c'è il rischio di cominciare a sentirsi superiori. Ho la sensazione che spesso i cosiddetti 'expat' si limitino al piacere o al fastidio di imbattersi in determinate differenze, ma che poi non vadano effettivamente molto oltre le apparenze, non studino la storia, le circostanze, le attenuanti. Chi si definisce expat di solito sa di essere di passaggio e non va per il sottile perché in un certo senso è già proiettato verso la prossima meta.
Sono quelli che ti vengono a dire che gli americani sono scemi perché hanno le case di legno, quel tipo di discorsi lì.
Spero di non aver offeso nessuno, lo so ci sono andata un po' giù pesante stavolta, ma questa è la mia esperienza. Tra l'altro poi fra i cosiddetti expat sono nate alcune delle mie più care e longeve amicizie perché singolarmente siamo sempre i soliti esseri umani, io ho un problema un po' con la mentalità del gruppo e con il concetto in base al cui alcuni sono expat e altri immigrati.
Probabilmente se usate questo termine, lo interpretate in modo differente.
Se volete parlarne, lasciate un commento o scrivetemi.
3 commenti:
Boh, teoricamente dovrei essere stata un'expat (termine che nella mia testa significa: moglie di qualcuno che lavora all'estero ma che appartiene ad un'elite).
In realtà, non lo sono mai stata in questo senso.
Mi sono sentita, invece, "italiana all'estero" ma senza la voglia di mischiarmi unicamente a italiani e cercando di imparare la lingua, per quanto possibile (per via delle scadenze lavorative pressanti... lavoro in inglese, ma non ho mai vissuto in nessun paese anglofono, quindi...).
Mi hanno spesso dato fastidio le questioni oziose che io, nella mia testa, associo al mondo "expat". Io ho sempre lavorato quasi come una schiava. In teoria dovrei essere anche una "privilegiata" ma si sa come vanno certi lavori dove non si timbra il cartellino... si finisce a lavorare sempre. Molto di più.
Quindi, boh, io "expat" proprio non mi ci sento. Magari cervello in fuga, ecco, come un sacco di italiani.
Io -non so perche'- ho sempre considerato Expat solo le persone che si spostano all'estero per una attivita' comunque legata al loro Paese di appartenenza: per esempio persone italiane che gia' lavorano in Italia alle quali la propria azienda chiede di trasferirsi in Usa per seguire la sede statunitense (o i clienti statunitensi o...).
Questi spesso si trovano in una situazione un po' particolare:
- la permanenza all'estero ha di solito una scadenza indicativa
- parecchie incombenze (trovare casa, pagare affitto, prendere auto) sono in parte o totalmente seguite dalla loro azienda
- non devono lasciare legami con Paese di origine
Sempre nel mio modo di pensare, chi e' all'estero trovando lavoro indipendentemente (o venendo a fare scuola e da li' trovando lavoro) penso possa semplicemente definirsi emigrato. Per me non e' mai stato un problema definirmi tale.
Saluti e grazie per gli ottimi e riflessivi post!
ed
Bulut: ci sono tante sfumature, tante sensibilità. Mi sembra che questa etichetta abbia fatto un po' il suo tempo, forse è diventata troppo evocativa in positivo e i n negativo. Io come dicevo, preferisco tenermene alla larga a questo punto.
Ed: grazie a te! Sí spesso gli 'expat' sono un po' come li descrivi tu. In quel caso, qui negli US almeno, hanno tutta una serie di vantaggi (tanti giorni di ferie in più ad esempio). La questione centrale per me non è tanto come uno si senta ma il fatto che un individuo razzializzato possa sentirsi 'expat', ma non essere riconosciuto come tale. Gli 'expat' sono solo bianchi e questo non lo dico io ma gli individui non bianchi che hanno sollevato la questione.
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