Oggi, per la prima volta in tutti gli Stati Uniti, si celebra il cosiddetto Juneteenth (da giugno, June, e diciannove, nineteenth), una ricorrenza che ricorda la fine della schiavitù nel paese.
La Guerra civile americana iniziò nel 1861, quando sette stati del Sud decisero di separarsi dal resto dell'Unione perché contrari alla proposta degli stati del Nord di abolire la schiavitù.
Il primo gennaio 1863, il presidente Abraham Lincoln firmò il Proclama di Emancipazione, un documento che imponeva la liberazione di tutti gli schiavi.
La notizia però non arrivò subito a tutti gli schiavi.
Le truppe unioniste impiegarono due anni e mezzo prima di riuscire a liberare gli schiavi in alcuni stati come il Texas, dove per anni continuò a comandare l'esercito sudista.
Solo il 19 giugno 1865 il generale Gordon Granger entrò nella città di Galveston e annunciò:
"Il popolo del Texas è informato che, in conformità con un proclama del ramo esecutivo degli Stati Uniti, tutti gli schiavi sono liberi. Ciò implica l'assoluta parità di diritti e di proprietà tra gli ex padroni e gli schiavi, e il legame che esisteva tra loro diventa quello tra il datore di lavoro e il lavoratore assunto".
È vero che il 19 giugno 1865 al momento del tanto atteso annuncio, gli ex schiavi festeggiarono, ma purtroppo la situazione, per tanti motivi, non cambiò immediatamente.
Nelle piantagioni, i padroni avevano il potere di decidere come e quando annunciare la notizia oppure di aspettare l'arrivo di un agente del governo.
Il Juneteenth è quindi un giorno di festa per la liberazione dalla schiavitù, certo, ma anche di dolore per il ricordo del ritardo con cui la nuova legge si affermò in alcuni stati del Sud e per le lotte che ancora oggi gli afroamericani si trovano a dover portare avanti.
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