Lunedì scorso è finito lo spring break e siamo entrati in una fase inedita, quella che tutti con grande nonchalance qui chiamano, the new normal, la nuova normalità. Io preferirei andarci piano con certe etichette, ma non ho molta scelta purtroppo.
I primi due giorni di insegnamento online sono stati piuttosto deliranti. Mille comunicazioni, mille cose nuove da imparare però non abbiamo perso nemmeno un giorno. Il servizio scolastico è andato avanti secondo il calendario previsto e questo mi rende molto orgogliosa di fare parte di questo gruppo di lavoro. E' incredibilmente complicato far quadrare tutto. Questo non è il lavoro che abbiamo accettato di fare o che siamo preparati a fare, ma ci stiamo provando con entusiasmo e stiamo facendo del nostro meglio. Se non altro siamo lí disponibili tutti i giorni per i nostri studenti, gli garantiamo continuità e un vago senso di sicurezza e non è poco di questi tempi.
La bibliotecaria della scuola è stata la prima davvero a capire quello che sarebbe successo e ad attivarsi. C'era solo un giorno a disposizione dopo la proclamazione dello stato di emergenza nazionale e non c'era stata ancora nessuna comunicazione ufficiale riguardo alla chiusura della scuola, ma quell'ultimo giorno la bibliotecaria ha permesso ai bambini di prendere in prestito praticamente tutti i libri che volevano. Ha detto: "Qualche libro andrà perso, ma è meglio sapere che i libri sono nelle mani di un bambino a casa che a fare la muffa in una scuola vuota". Applausi. Infatti, insieme alle scuole hanno chiuso subito anche tutte le biblioteche. Anch'io sono preoccupata in questo senso. Insegno arte e non posso dare niente per scontato. Chi lo sa se a casa tutti hanno le matite, i pennarelli, la colla, le forbici. C'è una mamma che mi ha scritto che ha preparato tutto un programma da fare a casa per la figlia e voleva dei consigli perchè ha inserito il Museo del Novecento di Milano in mio onore, ma non ne sa moltissimo. Ho delle famiglie di questo tipo e altre che fanno molta, molta, più fatica.
Le famiglie che non hanno un computer o una connessione internet l'altro giorno sono andate a ritirarli a scuola. Un po' come al fast food, con la segretaria che passava computer e chiavette hotspot dalla finestrella. Appena l'ho saputo, mi sono precipitata a portare anche pastelli a cera e tubetti di colla. Ho pensato che forse chi non ha un computer o una connessione è più probabile che non abbia neanche questi materiali altrettanto importanti per dei bambini chiusi in casa per tanto tempo.
Devo dire che da un lato questa situazione stimola la creatività. Mi trovo a dover pensare a lezioni che possano essere fatte con qualunque materiale il bambino abbia a disposizione e possibilmente in completa indipendenza. Mi stanno venendo delle buone idee, credo. Sto cercando di creare dei contenuti che siano fatti su misura per i miei studenti visto che per il resto su You Tube si trova di tutto.
Resta il fatto, però che quel giorno, quando sono tornata nella scuola deserta e poi nella mia classe e ho trovato tutto esattamente come lo avevamo lasciato un paio di settimane prima, ho avuto un (piccolo) crollo emotivo. Mi sono tornati in mente i banali gesti quotidiani che avevamo fatto anche quell'ultimo giorno, come sempre, senza riflettere sul fatto che non saremmo più tornati per chissà quanto tempo. La giacchetta dimenticata, il disegno lasciato a metà. Siccome sono una persona solare e ottimista, mi è venuto in mente Pompei, il tempo che si cristallizza nella tragedia. Per fortuna non c'è stata ancora nessuna tragedia, ma abbiamo questa spada di Damocle che pende sulle nostre teste.
A volte mi chiedo che vita è questa.
Ogni giorno, sono previsti trenta minuti in cui accendo Zoom e sono a disposizione dei bambini. Pensavo che sarebbero venuti a farmi vedere i loro disegni o a parlare delle solite cose nostre di arte e invece no, vogliono solo vedermi, raccontarmi quello che gli succede, ma soprattutto vedermi. Alcuni stranamente non parlano nemmeno e io mi imbarazzo e comincio a raccontare qualunque cosa mi venga in mente per riempire i vuoti. Alcuni hanno uno sguardo così triste. E poi dopo mi mandano i disegni, le letterine, I love you, I miss you. Accidenti quanto mi mancano. Se c'è una cosa che mi fa venire le lacrime agli occhi è pensare a loro. Non insegno in una di quelle scuole di frontiera che si vedono nei film, non mi sono dovuta mettere il giubbotto di pelle per farmi prendere sul serio, anzi la mia è una scuola bene attrezzata in una zona relativamente benestante, ma per tanti bambini, per motivi diversi, la scuola rimane il posto in cui si sentono più al sicuro. Di fatto loro adesso sono soli. Chi ha dei genitori responsabili ed equilibrati (è fin troppo facile perdere l'equilibrio ora chiusi in casa, con tanti posti di lavoro che saltano ogni giorno) avrà un trauma probabilmente gestibile, ma chi non ha questa fortuna rimarrà segnato, è così. Mi scrivono anche tanti genitori, mamme soprattutto. Forse hanno bisogno di conforto anche loro, hanno bisogno di sentirsi dire che stanno facendo tutto bene e che non devono preoccuparsi della scuola e io glielo dico volentieri. Siamo tutti sulla stessa barca, a fare le acrobazie fra compiti, lavoro e piatti da lavare. I risultati accademici in questo momento particolare sono l'ultima delle preoccupazioni. Prima avevi il tempo di concentrarti sulle cose, adesso è multitasking allo stato puro. Nel mio caso, Joe sembra reagire bene, ma Woody è fragile, non c'è l'asilo online per lui, non può chattare con i suoi amici, e così ha perso tutti i punti di riferimento. Prima era il bambino che ti rimprovera quando vai a prenderlo in anticipo e non fa in tempo a finire un gioco, ora invece se mi perde di vista un attimo o se gli rispondo che sono occupata, gli vengono gli occhi lucidi.
Un paio di giorni fa è scattata una fase un po' più seria della quarantena, quella dello shelter in place. A me fa impressione questa cosa perchè shelter in place è una frase che qui in Texas ho sentito solo durante le tempeste, quelle che sono abbastanza violente da potersi trasformare in tornado. Scatta la sirena e tutti sanno perfettamente dove andare: shelter in place! Significa che bisogna raggiungere subito il posto più interno della casa, di solito un bagno o un armadio, sedersi lì, magari con un cuscino o un casco in testa, e aspettare che passi. Nella mia esperienza shelter in place è una cosa che fa paura, ma dura pochissimo, una mezz'ora o molto meno. So che non sarà la stessa cosa, ma non ci posso fare niente, l'idea che lo shelter in place durerà settimane o mesi, mi atterrisce.
In realtà tutto mi atterrisce ultimamente. Ho paura per tutto e per tutti, non mi sono mai sentita così.
Mi scervello cercando un significato profondo per tutto questo perchè deve esserci un significato. Tutti dicono che dopo questa esperienza apprezzeremo di più quello che abbiamo. Ecco, io ci ho pensato bene, molto bene, e vi assicuro che apprezzavo tutto anche prima. Correvo troppo sì, ma correvo per non perdere nulla perché amavo la mia vita e tutte le persone che ne fanno parte, non per guadagnare o per superare qualcun altro. Trasferirti all'estero ti insegna a non dare mai un minuto per scontato. Quando tornavo in Italia facevo i tour de force per passare più tempo possibile con tutti perchè già sentivo questa sensazione di cui parlano tutti ora, la forza di uno sguardo, di un abbraccio. Già sapevo cosa significava vivere senza tutto questo. Scusate, ma la teoria che alla fine ti tocca ringraziare la tegola che ti è caduta in testa, non fa per me.
Continuerò a pensarci perchè voglio comunque trovare un significato, so che mi aiuterà e sono convinta che ci sia da qualche parte in mezzo a tutta questa sofferenza. Anche se i pensieri non sono chiari e limpidi come una volta in questo periodo. Ho due sottofondi costanti: le voci dei miei bimbi e le mie preoccupazioni, non mi sento me stessa fino in fondo. Ringrazio il cielo di essere circondata (si fa per dire) da persone che si sentono come me. Possiamo parlare e capirci benissimo e poi ridere di noi stessi, delle nostre paure. Non ho mai riso e pianto tanto con i miei amici come in questo periodo. Queste due cose, il riso e il pianto, sono le mie uniche armi in questa nuova normalità. Ah, e la condivisione.
1 commento:
Quello che posso dirti è che è molto brutto e straniante e abbrutente i primi giorni, poi si trova un senso, ci si sente uniti nella lotta per arginare questa cosa che ci colpiti. Non c'è un perché, c’è un è così. Come ti avevo già detto state a casa, shelter in place, se preferisci. Non per voi, o meglio non solo per voi, ma per gli altri, per tutti. Ogni persona che sta a casa dà una chance in più agli altri. Non conta quanto spazio puoi mettere fra te e un altro, conta quanto riesci a proteggere gli altri stando a casa. Questa è la tua battaglia, la mia battaglia, la battaglia di tutti.
E questo è l'unico senso che riesco a trovare. Per il resto le brave e buone persone usciranno da tutto questo ancora e forse di più, brave e buone, e quelle cattive usciranno più cattive, più feroci. Non è un'ordalia, non ci sono riscatti. Possiamo solo rimanere umani, esercitare l’umanità, la pietas e l'empatia.
Posta un commento